1956, una rivoluzione per la libertà

A sessanta anni esatti dai tragici fatti di Ungheria – dove le legittime aspirazioni di libertà e indipendenza di un popolo furono schiacciate dall’intervento armato dell’Armata Rossa - è opportuno, anzi doveroso, rendere omaggio, visto anche il silenzio assordante che ha caratterizzato questa ricorrenza, ai protagonisti di quei terribili giorni: ai caduti per la libertà del 1956 ungheresi, ai combattenti e alle vittime di un moto generoso, condannato all'isolamento e alla sconfitta in un mondo percorso dalle tensioni e dalle logiche della guerra fredda.

La sollevazione ungherese contro lo stalinismo fu il segno più grande della resistenza opposta alla pressione del totalitarismo comunista. Si trattò di una resistenza repressa brutalmente in quell’ottobre di sessant'anni fa, ma che sarebbe riemersa, nel corso dei decenni successivi nella vita dei popoli sottoposti ai regimi dispotici del socialismo reale.

La rivoluzione ungherese rappresentò, infatti, il tentativo generoso di scardinare un ordine imposto dall'esterno, di riappropriarsi della libertà di scegliere il proprio ordinamento e le proprie istituzioni, il proprio modo di vivere e di essere. Ma nell'epoca della guerra fredda, per quella rivoluzione non c'era futuro: fu infatti una rivoluzione calunniata dal comunismo internazionale. Per più di tre decenni venne bollata come “controrivoluzionaria” dal regime imposto a Budapest dai sovietici. A questo giudizio, purtroppo, si accodò quasi tutta la sinistra italiana, o almeno la sua parte più importante. Si trattò di un errore storico la cui gravità non può certo essere alleggerita dal fatto che si era nel mezzo della guerra fredda, e dunque si doveva scegliere di stare o di qua o di là perché non esisteva una terra di nessuno.

Aveva ragione, invece, Hannah Arendt, quando, riferendosi ai rivoltosi, scrive che il loro movente era la libertà, nel segno della democrazia contro la dittatura, della libertà contro la tirannide.

In realtà, quando l'insurrezione, in pochi giorni, giunse alla richiesta del ritiro delle truppe russe, alla fine del partito unico, e al ripristino del pluralismo, scattò la repressione spietata e furono i carri armati sovietici a soffocare, su richiesta di Kàdàr, la rivoluzione popolare.

Quando il tentativo di riconquistare la libertà venne sconfitto, tutto sembrò ripiombare nella cupa realtà di un regime dittatoriale, ma il dissenso che si è manifestò in modo così palese nel 1956 non scomparirà, ma tornerà a riproporsi nel 1968 a Praga e, poi, negli anni successivi nei cantieri di Danzica.

L'utopia di un socialismo riconciliato con la democrazia e con la Nazione continuerà a tormentare i regimi dispotici fino al 1989, anno in cui crollerà il muro di Berlino, e saranno vere le parole di Francois Furet: “Il comunismo, che non ha mai concepito altro tribunale che la storia, si ritroverà condannato dalla storia alla scomparsa. Cadrà perché non è riuscito ad essere parte della storia democratica”.

Non tutti compresero l'autentica natura e la portata della rivoluzione ungherese nel momento in cui veniva sopraffatta dalla violenza dell’intervento sovietico. Lo comprese una parte, solo una parte, della sinistra italiana. Un'altra parte si rifiutò di intendere, non ne fu in grado, non volle e giunse, in ritardo, alla revisione delle proprie posizioni e alla comprensione piena del valore di quello storico avvenimento. Pagò, col tempo, un prezzo enorme alla sua cecità.

Un prezzo altrettanto enorme lo pagò quella che in quel periodo veniva definita “la Chiesa del silenzio” ed, in particolare, tutti coloro che non vollero piegarsi alla dittatura sovietica ed alla ideologia marxista, come il Primate d'Ungheria József Mindszenty che fu costretto, quando la rivolta fu repressa, a rifugiarsi nell'ambasciata americana a Budapest, dove visse per un oltre un decennio praticamente segregato, condividendo le sofferenze del suo popolo fino alla sua partenza per Vienna.

József Mindszenty era nato a Csehimindszent nel lontano 29 marzo del 1892 da una famiglia povera e contadina di discendenza tedesca; a 13 anni entra in seminario ed a 23 anni è ordinato sacerdote. Due anni dopo insegna religione e già da quel tempo – siamo all'epoca della velleitaria ma terroristica repubblica di Béla Kun – le sue prediche ed i suoi scritti sono caratterizzati dalla veemenza con la quale si scaglia contro il “terrorismo rosso” ed i “metodi e lo spirito materialista”, in nome delle tradizioni del nobile popolo magiaro ed in nome dei valori perenni dello spirito e della religione cattolica, valori per i quali in seguito tante sofferenze dovrà sopportare.

Per questo viene gettato, senza processo, in carcere. Dopo la sua liberazione Mindszenty riprende la crociata anticomunista ancora più intransigentemente ed ancora con più decisione di prima, per questo egli non si limita alle prediche, ma ingrandisce la parrocchia sua e quelle del circondario, apre nuove scuole cattoliche, intensifica la propaganda della dottrina cattolica e dei Papi di Roma.

Nel 1944 egli viene nominato Vescovo di Veszprém, poche settimane prima che le truppe dell'Asse dilagassero all'Est. I rapporti con “il nuovo paganesimo” - così definirà il nazionalsocialismo il prelato – non sono dei migliori anche se non può disconoscere l'impegno delle forze che si battono contro lo stesso nemico di sempre: il comunismo ateo e materialista.

Avvenuto il crollo, Mindszenty cerca di raccogliere di nuovo il suo gregge intorno a sè, di ridare forze e speranza ai suoi sacerdoti affinché non si lascino mettere il bavaglio dai “rossi” che ormai avanzano su tutti i fronti, incontrastati.

È lo scontro – che non è solamente tra due movimenti, ma tra due concezioni della vita, tra due sistemi, tra due mondi addirittura – avviene in occasione della sua nomina, da parte di Papa Pio XII, a primate d'Ungheria. La scelta, naturalmente, non poteva essere migliore in quel tempo.

La prima battaglia a cui partecipa il cardinale è quella che vede impegnati i partiti politici sulla riforma agraria che Mindszenty avversa con tutto il suo clero, girando e predicando di persona, inviando direttive e pastorali ai suoi fedeli, appoggiando tutti quei partiti, movimenti e gruppi che si dichiarano apertamente anticomunisti. E la battaglia è vinta, uscendo sconfitti dalla competizione non solamente i comunisti ma anche i socialdemocratici.

Non si ha nemmeno, però, il tempo di rallegrarsi che subito dopo, nel 1947, alle elezioni, i comunisti raggiungono la maggioranza relativa. E per l'Ungheria è la fine! Attraverso, infatti, la conquista del potere dal di dentro, il Partito Comunista elimina ad una ad una tutte le libertà, a partire da quella di riunirsi in partiti e associazioni. Iniziano così le elezioni a lista unica e bloccata, passano tutte le leggi volute e proposte dal partito comunista: da quella agraria che il popolo aveva respinto a larga maggioranza, a quella che scioglie le organizzazioni religiose, a quella che nazionalizza le scuole cattoliche.

Ormai il Principe cattolico non ha più alcuno strumento di propaganda nelle mani, al di fuori delle riunioni che egli stesso tiene ai suoi fedeli nelle parrocchie di tutto il “suo” Paese, ma anche queste vengono, il più delle volte, sciolte o disturbate dalla polizia.

Eppure egli non si arrende, instancabile, pur essendo consapevole, come ebbe a dire al cardinale Spellman, il quale gli chiese se temesse un arresto a breve scadenza, di esserlo già in pratica; pur sapendo che i tentativi di attentati alla sua vita si susseguivano e si moltiplicavano ad opera e per ordine di Rákosi, capo del comunismo magiaro, che per eliminarlo non seppe far di meglio che un processo, i cui capi d'accusa, ridicolmente e paradossalmente, erano: spionaggio, complotto contro lo Stato, alto tradimento e traffico di valuta.

Bisogna attendere il 1956, anno della sfortunata ma generosa insurrezione ungherese, per vedere in libertà il Cardinale, che con lo stesso entusiasmo e lo stesso ardore di prima è tra i suoi concittadini per dare speranza, per incitare alla resistenza, per confortare, per benedire e dare l'assoluzione ai coraggiosi che cadono sotto i colpi dei carri armati.

Poi il silenzio.

Tutti ricordano come si concluse l'eroica rivoluzione di quel popolo che aveva sperato, invano ed ingenuamente, nell'aiuto dell'Europa e degli Stati Uniti d'America. Ingenuamente, perchè aveva dimenticato che vi era stata una Yalta che per sempre aveva diviso il mondo in due zone d'influenza e che purtroppo l'Ungheria era capitata in quella sovietica.

Mindszenty si rifugia nell'ambasciata americana e là vive per anni. Dimenticato, scomodo personaggio che infastidisce e crea solamente problemi alla nuova politica di distensione, al dialogo alle aperture conciliari, fino a quando accetta di partire per l'esilio in Austria solo per obbedire ad un ordine che arriva dal Vaticano. “Accetto la mia partenza – disse – come la croce più pesante della mia vita”.

Riccardo Pedrizzi