Ecco i responsabili dell'irrilevanza politica dei cattolici

Anche Ernesto Galli della Loggia, dopo l'articolo di Andrea Riccardi sul “Corriere della Sera” ha affrontato “la questione cattolica”, sostenendo che “politicamente i cattolici nel loro insieme dopo la catastrofe del 1992-94 contano zero” e rilevando anche che il Capo della potente associazione Sant'Egidio nel suo intervento non risponde “alla domanda cruciale: qual'è la ragione di questa eclissi cattolica? Perché mai in Italia questo precipizio nell'irrilevanza pubblica?”
Cerco di dare io quella risposta che Riccardi non ha potuto, non poteva e non può dare perché avrebbe dovuto fare per sé e per tutto quel filone di pensiero, che va sotto il nome di “cattolicesimo democratico”, o “progressista” o ancora “cattocomunista”, una vera e propria autocritica.
Il cattolicesimo democratico e “adulto”, quello della cosiddetta “scelta religiosa” ha sempre sostenuto di amare “la Chiesa che si occupa delle cose di Dio”. La Chiesa si occupi cioè delle cose che non si vedono, dello spirito, dell'anima, del cielo, dell'aldilà; che a quelle terrene che si vedono e si toccano, all'aldiqua insomma, ci pensano i laicisti. In poche parole “non disturbare il manovratore”.
Questo tipo di cattolici, ha sempre pensato che non sta alla Chiesa occuparsi delle cose dell'uomo. Eppure Dio si è fatto uomo, carne e sangue; dunque alla Chiesa non può non interessare la dimensione e la condizione umana, l'uomo, la verità su di esso e il suo vero bene. Per questi cattolici era più comoda e conveniente una Chiesa che non intervenisse nella società per correggerla, migliorarla e renderla più a misura d'uomo; che non affermasse la rilevanza pubblica del cristianesimo.
Questi fautori del disimpegno sociale del cattolicesimo, sono quelli che pensano: una cosa è la fede, un'altra è la vita (e quindi la politica). Sono gli alfieri del divorzio, della frattura tra la fede e la vita (e quindi la politica). Sono quelli che non hanno capito che una fede che non venga messa in pratica, che non venga incarnata, inverata nella realtà della vita (e quindi anche della politica), che non incida sulla società per umanizzarla, è una fede senza vita, evanescente ed inutile.
Eh sì, perché non basta essere cattolici nella sfera religiosa, spirituale, personale, intima, domestica: bisogna esserlo anche nella dimensione sociale, civile, culturale e quindi politica. La fede, cioè, non può essere ridotta ad un mero fatto privato, pubblicamente irrilevante, insignificante; la fede deve avere rilevanza sociale. Occorre insomma essere cristiani non solo a casa e in chiesa, ma anche nel Paese, nelle istituzioni, in Parlamento, nel votare, nel fare le leggi. Perché è vero che un cattolico, quando entra in politica, fa il politico, ma è anche vero che non smette, non può smettere, di essere cattolico. 
Un cattolico, anche se fa politica, non può agire malgrado e addirittura contro il magistero e la dottrina sociale della Chiesa. Un cattolico, solo perché fa politica, non può ignorare e anzi rinnegare l'insegnamento del Vangelo.
Insomma, poiché nel Magistero della Chiesa rientra anche la verità politica e sociale, i cattolici devono adempiere ad una missione pubblica ed esercitare un'azione civilizzatrice nella società.
A quelle voci che si levano per limitare il ruolo della Chiesa allo stretto ambito spirituale, negando il suo diritto a intervenire nella Società, rispondiamo con le parole di Pio XII: “In opposizione a questi errori si deve tenere apertamente e fermamente che il potere della Chiesa in nessuna maniera è limitato, come si sul dire, “alle cose strettamente religiose”, ma che tutta la materia della legge naturale, la sua esposizione, interpretazione e applicazione, qualora si consideri il loro aspetto morale, è di competenza della Chiesa”.
Se dunque è vero che il Magistero della Chiesa non può estendersi alla scelta di una posizione partitica o di un simbolo elettorale, è altrettanto vero che il Papa e le gerarchie ecclesiastiche hanno il diritto di rivolgersi al popolo italiano (e quindi anche al ceto politico) per orientarlo. Ed hanno questo diritto perché la Chiesa ha il dovere di predicare la propria dottrina sociale. La quale, come ha insegnato Pio XII, “è definitivamente e univocamente fissata nei suoi punti fondamentali (…). E' chiara in tutti i suoi aspetti; è obbligatoria”.
Ma c'è qualcosa d'ulteriore: chi nega il ruolo pubblico del cristianesimo è profondamente illiberale e intrinsecamente antidemocratico. Infatti l'Occidente si caratterizza e si distingue da altre parti del mondo, per l'assoluta libertà, a cominciare da quella di espressione. Qui da noi tutti possono dire tutto, perfino chi non ha nulla da dire. E nessuno si sogna di sostenere che le varie organizzazioni sociali non possano partecipare al dibattito pubblico, non possano intervenire sui temi posti all'ordine del giorno dell'agenda politica, non possano far sapere come la pensano, specie su quei provvedimenti che le toccano direttamente. Le loro prese di posizione, anzi, vengono giustamente considerate un arricchimento del dialogo, del confronto e della vita democratica.
Tale diritto alla libertà di espressione, dovrebbe essere negato solo alla Chiesa cattolica, che ha molto, anzi tutto, da dire. 
Solo la Chiesa, per questi campioni della libertà a intermittenza, dovrebbe tacere, astenersi dal giudizio sugli interventi del potere costituito, anche quelli che, chiamando in causa valori etico-sociali, come la famiglia, riguardano la sua stessa missione. 
Insomma, la Chiesa cattolica dovrebbe pensare: tutto quello che lo Stato decide, per noi va sempre bene. E quindi “non disturbare il manovratore”. Questa pretesa totalitaria, dovrebbe suscitare la ribellione non soltanto dei cattolici, ma anche dei veri liberali di qualsiasi schieramento politico e culturale.


Riccardo Pedrizzi