L'Europa che vorremmo

Quello di imporsi traguardi tanto ambiziosi da sembrare quasi velleitari è un vizio che l'Europa non ha perso in sessant'anni di vita. È una costante, un suo tratto distintivo che l'ha trasformata nella più grande storia di successo dopo le desolazioni e le miserie di due guerre mondiali. Perché, come amano ricordare i padri fondatori della Comunità così come tutte le autorità italiane ed europee che ne hanno celebrato a Roma i sessant'anni di vita, «il futuro appartiene ai sognatori e i sogni, per chi ci crede davvero, tante volte si trasformano in realtà».

Negli anni '50, bisognava gettare le basi per evitare che in Europa si versasse altro sangue, sanare la ferita aperta del dissidio franco-tedesco. Ci si provò con la Comunità europea di difesa nel '54 ma il tentativo andò male. Si tentò la carta dell'economia con i Trattati istitutivi della Comunità economica e dell'Energia atomica. Ma l'obiettivo era lo stesso: l'unione politica. Oggi, dopo sessant'anni, l'Unione è a 27, abbiamo un mercato interno di mezzo miliardo di consumatori e una moneta unica, ma il traguardo più ambizioso resta sempre l'unione politica ed una costituzione europea.

La pace è una conquista assodata, nessuno la mette più in discussione, ma la lotta al terrorismo islamico, l'invasione di masse di disperati dall'Africa e dall'Asia, la difesa del multilateralismo nelle crisi regionali, le sfide poste dalla globalizzazione, dalla crescita sostenibile e dall'approvvigionamento energetico chiamano in causa ancora volta un'Europa forte ed efficiente. Depurati da quel tanto di inevitabile retorica che ogni celebrazione si porta con sé e con alcune lievi differenze, sono queste le considerazioni che a Roma in varie sedi, durante le celebrazioni per i sessant'anni dei Trattati, sono state svolte da tutti i rappresentanti degli Stati Europei.

Eppure l'Europa sembra cadere a pezzi, l'Europa sembra attraversare una crisi irreversibile.

E' sotto gli occhi di tutti, infatti, la debolezza della politica, la cui eclissi si è venuta allargando negli ultimi vent'anni, di fronte al potere irresponsabile di tecnici e della grande finanza. E' l'intera Eurozona, ormai, a trovarsi in queste condizioni, le cui conseguenze sono:

1) La resa delle istituzioni alla governance economica europea, la quale, evidentemente, ha piazzato e cercherà sempre di piazzare propri uomini alla guida dei paesi più esposti alla crisi dell Eurozona (in Italia, in Grecia, in Portogallo, ecc. ecc.).

2) la resa incondizionata alle teorie neoliberiste (la finanza d'assalto ha deciso che può e deve governare direttamente, senza alcuna mediazione degli stati, dei governi e dei parlamenti).

Siamo dinanzi ad una vera e propria dottrina economica e politica, che estende le regole del mercato alla società e alle istituzioni, trasformando “l'economia di mercato” in “società del mercato”; una dottrina ed una concezione del mondo della vita, che fa del profitto l'unico scopo della vita e della mercificazione di tutto e di tutti, persino del corpo, lo strumento per raggiungere l'obiettivo.

La crisi politica e culturale dell'Europa, dunque, precede la crisi economica ed anche le attuali difficoltà.

E la gente comune è indignata perché subisce scelte che non capisce, prese da centri decisionali sentiti estranei e lontani. Il più delle volte si tratta di decisioni poco trasparenti, prese da soggetti senza volto che nessuno conosce, che per giunta non sono stati né scelti, né eletti dal popolo,

Inoltre l'europeismo servile che era cresciuto in Italia, affidandosi sempre più all'Europa ed al FMI, ha delegittimato poi la classe dirigente del nostro Paese e la politica tout court.

Un facile ottimismo europeista ci aveva indotto a credere che l'Unione Europea fosse il luogo di una nuova e fraterna collaborazione, vediamo ora che non è così. Anche in Italia, che di questo europeismo un po' superficiale è stata forse la patria, l'opinione pubblica si è resa conto che in Europa la competizione è aspra ed avviene senza esclusioni di colpi e, soprattutto, e si è accorta che all'Italia vengono imposte regole, politiche e persino usi, costumi e valori estranei alla nostra cultura ed alla nostra tradizione (basti pensare al diritto di famiglia). È per questo motivo che anche in un Paese europeista come il nostro la fiducia nella UE è ultimamente precipitata.

Di fatto è la BCE (Banca Centrale Europea), varata con il Trattato di Maastricht nel 1992 e nata nel 1998, che ha assunto la guida, oltre che della politica monetaria, della politica economica e sociale dell'area dell'Euro, espropriando gli Stati nazionali della loro sovranità.

Per rendersene conto basta ricordare la lettera che Mario Draghi e Jean Louis Trichet inviarono al presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi, il 5 agosto 2011, a nome del Consiglio direttivo della BCE, con la quale dettarono una precisa agenda al governo italiano.

Mai un gruppo di eurocrati, indipendenti dal potere politico, che Paolo Savona definiva in un suo opuscoletto di qualche decennio fa gli “gnomi di Bruxelles”, era intervenuto in maniera così diretta e dispotica nella vita pubblica di un Paese.

In pratica la BCE, la Banca Mondiale, le agenzie di rating ed il FMI (Fondo Monetario Internazionale), ma anche il mercato, a cui si sono inchinate sia le forze del Centrodestra che della Sinistra liberaldemocratica, hanno commissariato l'Italia, e ci dicono, quali riforme fare, quando farle e come far quadrare non solo i conti dello Stato, ma anche i bilanci delle nostre banche.

Solo una guerra con eserciti d'occupazione avrebbe potuto fare peggio e ci avrebbe potuto mettere più in ginocchio. Oltretutto senza ottenere nulla in cambio.

È chiaro perciò, come ha scritto Giovanni Reale nelle “Radici culturali e spirituali dell'Europa” che a questo punto «non basta più nemmeno una Carta costituzionale dell'Europa redatta in maniera astratta e prevalentemente su basi giuridiche ed economiche, non basta questo tipo di Costituzione a creare il cittadino europeo» ed a dare un'anima all'Europa. Del resto lo stesso grande pensatore Joseph de Maistre riteneva che le costituzioni non possono essere scritte in laboratorio, ma devono essere la risultante della storia, delle circostanze, delle tradizioni, degli usi, dei costumi, dei valori della nazione e perché no? delle forze in campo e del popolo ed oggi avrebbe sicuramente sostenuto che per fare l'unità d'Europa non bastano Carte costituzionali e Trattati, che per di più possono essere mostruosi agglomerati di infiniti articoli, per regolare certi delicati equilibri continentali, ma giova sopratutto la presenza di una comune coscienza nel quadro di valori condivisi, pur nella varietà delle specifiche identità nazionali . (cfr. Domenico Fisichella Sovranità e Diritto naturale in Jospeh de Maistre, Pagine Editore, Biblioteca di Storia e Politica. Roma 2017; pagg. 239, euro 17,00. )

Finora i Governi e le classi dirigenti europee hanno voluto realizzare un'area nella quale persone, capitali e merci potessero circolare liberamente, in un'ottica esclusivamente economicistica. In tale contesto, si spiegano i segnali di euroscetticismo provenienti dalle singole opinioni pubbliche nazionali, nonché il radicalizzarsi delle prese di posizione degli Stati membri.

In effetti l'Unione Europea non può essere soltanto una zona economica di libero scambio. Essa dovrebbe essere un organismo politico; una terra di diritti; una realtà che non si contrapponga alle nostre patrie nazionali, ma le colleghi e le completi. Avrebbe dovuto essere un soggetto politico che non neghi l'identità dei nostri Stati nazionali, ma la rafforzi di fronte alle grandi sfide di un orizzonte sempre più vasto.

Gli scenari internazionali attuali e futuri, caratterizzati dal protagonismo dei subcontinenti indiano, cinese, dell'America latina, recentemente dell'Africa, dalla fine della guerra bipolare Est-Ovest e dalla contrapposizione mondo occidentale ed Islam, che dovrebbero indirizzare ed incoraggiare l'Europa verso la costruzione di un soggetto politico forte ed unito.

Questa sfida si potrà vincere solo partendo dalla riscoperta dell'identità europea come elemento fondante delle istituzioni politiche.

L'obiettivo strettamente economico ha dimostrato infatti di poter funzionare - la decisione di aderire o meno all'Unione dei nuovi Paesi ebbe motivazioni eminentemente economiche - in un contesto espansivo e di sviluppo lineare. In breve, quando tutto va bene e non nascono problemi, la Unione Europea funziona.

Quando, invece, aumentano i timori per l'incertezza futura e per le conseguenze della crisi finanziaria ed economica, si affacciano spinte populistiche nazionali - e lo dico non in un'accezione negativa - e visioni particolaristiche, che stanno mettendo a rischio l'intero edificio comunitario.

Si era detto che la globalizzazione avrebbe dovuto distruggere lo Stato-nazione. I trasporti e le comunicazioni avrebbero dovuto cancellare i confini e reso il mondo più piccolo. Le reti transnazionali, le organizzazioni internazionali e le istituzioni multilaterali avrebbero dovuto soppiantare i legislatori nazionali. Invece sono stati gli Stati nazionali a salvare le banche, ad immettere liquidità nel sistema finanziario, a lanciare stimoli fiscali ed assicurare ammortizzatori sociali ai disoccupati. Il G-20, il Fondo monetario internazionale e le Istituzioni comunitarie non hanno fatto niente finora per evitare le crisi finanziarie.

Al momento, il laissez-faire del mercato che si autoregolamenta da sé e la tecnocrazia internazionale non hanno fornito una valida alternativa allo Stato-nazione.

Anzi l'attaccamento allo Stato-nazione rimane piuttosto forte.

Tutte le indagini in diversi Paesi hanno dimostrato che il numero di chi si considera cittadino nazionale supera di gran lunga chi si considerava cittadino del mondo e che l'identità nazionale prevale persino sull'identità locale. Solo i cosiddetti intellettuali snob e radical chic, che appartengono all'alta società, si dichiarano cittadini del mondo ed europei.

Brexit docet e persino le recenti elezioni francesi che hanno visto una distribuzione dei voti assai significativa (a Parigi la Le Pen non ha superato il 10% ed al primo turno ha preso solo il 5% mentre ha ottenuto grandi successi nei territori a vocazione operaia ed agricola) hanno dimostrato che esiste questa frattura tra popolo ed elites, tra alto e basso come è stato detto.

Per tali motivi l'Europa si trova di fronte ad un bivio: o guardare alla sua storia millenaria, ritrovare le sue radici profonde e i valori di civiltà, solidarietà ed identità, ovvero scivolare verso un progressivo svuotamento delle istituzioni comunitarie con il conseguente indebolimento degli stessi Stati membri, o, addirittura, assistere alla deflagrazione di tutta l'area con il tramonto di un sogno.

Appaiono particolarmente appropriate pertanto, nella ricerca dell'elemento unificante, le affermazioni che l'allora cardinale Ratzinger pronunciò nella Biblioteca del Senato nel suo intervento proprio sull'Europa: “... la fissazione per iscritto del valore e della dignità dell'uomo, di libertà, eguaglianza e solidarietà con le affermazioni di fondo della democrazia e dello stato di diritto, implica un'immagine dell'uomo, un'opzione morale e un'idea di diritto niente affatto ovvia, ma che sono di fatto fondamentali fattori di identità dell'Europa...”. Il cammino dell'Europa cioè potrà riprendere e diventerà più saldo e spedito se riformerà le sue istituzioni progettando la costruzione di un vero e proprio soggetto politico che incarnerà tali valori.

Eppure nemmeno il mondo cattolico pare rendersene conto.

Perché questo “assordante” silenzio nei confronti del cristianesimo? Perché voler continuare a negare una realtà così forte e vivificante del tessuto sociale europeo quale la religione cristiana?

In Europa, in realtà, è pressoché impossibile compiere una cesura tra cultura, politica, arte, economia, in una parola tra la vita personale di ciascuno di noi e le radici e le tradizioni cristiane. Basterebbe pensare all'identificazione che ne fa l'ISLAM e l'ISIS definendo tutti noi “crociati”, indipendentemente dal credo ideale, etico e politico, è veramente difficile, se non addirittura ipocrita, dimenticare che i valori fondanti dell'Occidente sono un'eredità del cristianesimo.

E' fuori discussione, dunque, che le impegnative sfide che attendono l'Europa esigono una perfetta consapevolezza della propria identità storica, culturale, sociale e spirituale che se non è cristiana non è nemmeno concepibile.

D'altro canto l'Europa unita è oggi una realtà della quale il mondo intero non può fare a meno e dalla quale è praticamente impossibile che gli stessi Stati membri possano prescindere.

La comune matrice della cultura europea costituisce dunque l'effettivo nucleo identitario delle comunità e delle nazioni aderenti all'Unione.

L'Europa perciò deve riprendere il cammino intrapreso andando oltre l'integrazione economica e finanziaria per puntare con decisione alla creazione di un soggetto politico omogeneo e coeso, che coinvolga popoli e comunità, che non sia un blocco chiuso, «contro» qualcosa o qualcuno, ma piuttosto, come un soggetto, forte della sua omogeneità, che può svolgere un ruolo magnetico, da calamita, per le aree adiacenti, prima fra tutte quella del Mediterraneo.

Ed allora risulta improcrastinabile avviare un processo innanzitutto culturale, prima ancora che economico e politico. E’ la coscienza comunitaria delle vecchie e delle nuove generazioni che bisogna costruire e alimentare, e tale processo può realizzarsi solo con il coinvolgimento e l'apporto di tutte le istanze culturali, politiche e sociali e dei diversi valori fondanti nei quali si riconosce la società civile, nelle sue molteplici realtà organizzative e associative. L'Europa che vogliamo è la casa comune degli Stati nazionali, in cui l'unità di intenti e l'azione unitaria nella politica estera, economica, di difesa e di sicurezza si accompagnano al riconoscimento e alla valorizzazione delle millenarie identità politiche, sociali, culturali e religiose della diverse storie nazionali.

Ed allora occorrerà su queste basi e secondo questi valori, aprire una nuova stagione di riforme istituzionali per varare quella Costituzione che costruisca il modello dei rapporti tra Istituzioni comunitarie e singoli Stati nazionali sulla base del principio di sussidiarietà.

Il dibattito dovrà svilupparsi pertanto sulla ripartizione delle competenze degli organismi comunitari, sulla semplificazione degli strumenti legislativi dell'Unione, su una maggiore trasparenza democratica e legittimità delle istituzioni europee e non potrà prescindere da una riflessione attenta sul ruolo dei Parlamenti e degli Stati nazionali.

In pratica va riconfermato che è e sta nel principio di sussidiarietà il fondamento attorno a cui far ruotare i rapporti tra l'Unione e gli Stati e che la determinazione delle competenze deve avvenire in coerenza con questo fondamentale principio. "Integrazione ove necessario, decentramento ove possibile", tale deve essere la chiave di volta della politica comunitaria, nella consapevolezza che il rafforzamento dell'identità civile, economica e storica dell'Unione si costruisce proprio attraverso il rispetto del principio di sovranità nazionale dei singoli popoli.

Del resto questa fu l'essenza della politica europeista del generale De Gaulle. Lo statista francese mirava infatti a prefigurare l'integrazione europea in progetto politico ampio, in cui gli Stati nazionali avrebbero avuto maggiore peso e maggiori responsabilità, proprio nell'ambito di una reciproca, fattiva e feconda collaborazione.

“L'unico modo per far diventare l'Europa un'entità economica, culturale e umana è quello della cooperazione fra gli Stati”, affermò De Gaulle nel suo primo incontro ufficiale con Amintore Fanfani nel 1958 a Parigi.

Era in luce il progetto di una nuova Europa, che oggi l'Italia e gli Stati dell'Unione potrebbero concretamente realizzare.

Riccardo Pedrizzi