Demografia, è già inverno inoltrato

Il monito del presidente Mattarella sull'allarme demografico lanciato dall'Istat evidenzia uno dei temi fondamentali che la classe dirigente di questo Paese non può ignorare: la denatalità, l'inverno demografico, un problema che riguarda l'esistenza stessa del nostro Paese, come ha detto Mattarella e rischia di compromettere per sempre il futuro del Mezzogiorno.

Eppure la composizione della sua popolazione era l’unica ricchezza del Sud, da sempre. Ed i figli rappresentavano la vera e sicura assicurazione per le generazioni che invecchiavano, lasciavano il lavoro e diventavano non autosufficienti. Quanti più figli si facevano più sicura era la vecchiaia e non contavano l’arretratezza della sanità, le pensioni inadeguate, il mancato sviluppo economico. Ora, anche da questo punto di vista, il Sud d’Italia ha imboccato un strada senza ritorno: quella dell’invecchiamento demografico e dello spopolamento anche culturale. È questo il grido di allarme e di dolore che va lanciando lo Svimez (l’Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno) da qualche anno a questa parte. “All’indomani di una delle crisi economiche e sociali più profonde e gravi dell’era contemporanea, il Mezzogiorno si appresta ad affrontare il riavvio di un processo di sviluppo in condizioni più svantaggiate di quelle dell’immediato Dopoguerra, per l’emersione di un nuovo dualismo, quello demografico: una popolazione in rapido invecchiamento in un’area ancora caratterizzata da un forte deficit di capitale fisso sociale potrebbe innescare un pericoloso circolo vizioso di maggiori oneri sociali, minore competitività del sistema economico, minori redditi e capacità di accumulazione e crescente dipendenza dall’esterno. Negli ultimi anni si è avuta un’ulteriore conferma della crisi demografica delle regioni meridionali insorta nei primi anni Duemila e aggravatasi nel corso della pesante recessione economica. Il Sud non è già più un’area giovane né tanto meno il serbatoio di nascite per il resto del Paese, e va assumendo tutte le caratteristiche demografiche negative di un’area sviluppata e opulenta, senza peraltro esserlo mai stata.

In base alle tendenze in atto, mentre la dinamica demografica negativa del Centro-Nord è compensata dalle immigrazioni dall’estero, da quelle dal Sud e da una ripresa della natalità, il Mezzogiorno resterà terra d’emigrazione “selettiva” (specialmente di qualità), con scarse capacità di attrarre immigrati dall’estero, e sarà interessato da un progressivo ulteriore calo delle nascite….”. Nei Rapporti Svimez si fa riferimento al depauperamento di capitale umano meridionale. “Considerato il saldo migratorio negativo dell’ultimo quindicennio, una perdita di circa 200 mila laureati meridionali, e moltiplicata questa cifra per il costo medio a sostenere un percorso di istruzione terziaria, la perdita netta in termini finanziari del Sud ammonterebbe a circa 30 miliardi di euro. Si tratta di quasi 2 punti di PIL nazionale, una stima “minima” che non considera molte altre conseguenze economiche negative ma che dà la dimensione di un fenomeno che pesa sul Mezzogiorno anche in termini di trasferimento di risorse finanziare verso le aree più sviluppate, e che andrebbe considerato nella letteratura sui trasferimenti finanziari interregionali, senza contare gli effetti indiretti di guadagno per il Centro-Nord in termini di competitività e di produttività del trasferimento di forza lavoro qualificata…”.

(I dati sono ripresi da Riccardo Pedrizzi “Il Salvadanaio. Manuale di sopravvivenza economica”. Edito da Guida Editori – pagg. 407 – Euro 18,00).

Di questo capitale sociale il Sud avrebbe bisogno per svilupparsi ed invece lo sta perdendo. È un vero e proprio impoverimento generalizzato.

Eppure questa vera e propria tragedia passa sotto silenzio nel nostro Paese perché viene del tutto ignorata dalla maggior parte dei massmedia condizionata da un'insana ideologia malthusiana che ritiene il calo demografico un vantaggio e non invece una iattura dalle enormi ed imprevedibili ricadute sul piano della tenuta sociale.

Ora, però, dopo le ultime notizie dell'ISTAT ed il monito di Mattarella bisognerebbe portare la questione in Parlamento e nel Paese affrontandola con attrezzi adeguati per correre ai ripari, se non si vuole che il trend negativo si accentui sempre più, fino alla pressoché totale estinzione della popolazione italiana.

Preliminarmente ad ogni politica di rilancio della natalità dovrà esserci perciò un esame di coscienza di tutte quelle forze politiche che negli ultimi tempi non hanno fatto altro che portare avanti politiche di attacco all'istituto della famiglia con il risultato di disgregarla e di portare il nostro Paese nelle condizioni attuali.

Successivamente vi è da imboccare una sola strada: mutare le odierne condizioni sociali, economiche e culturali che rendono arduo, se non proibitivo, mettere al mondo un figlio. E questo si può fare solo ponendo al centro delle politiche sociali il ruolo della famiglia, assicurando ad essa tutto quel sostegno, anche economico, che è necessario perché possa rispondere adeguatamente ai propri problemi. Ci vogliono misure che, seguendo l'esempio dei Paesi nordeuropei, - pensiamo ad esempio alla Norvegia, ma anche a nazioni a noi vicine come la Francia, dove si assiste ormai da anni al cosiddetto “baby-boom”, - siano in grado di incentivare le giovani coppie a mettere al mondo figli, restituendo loro la voglia di scommettere sul futuro. Si pensi, ad esempio, inoltre, ad aiuti economici per la nascita di figli; ad interventi a favore delle coppie giovani con mutui agevolati per l'acquisto della prima casa; ad una maggiore flessibilità della normativa per le lavoratrici madri per conciliare le esigenze della vita familiare con quelle del lavoro; ad una riforma fiscale che tenga conto del numero dei componenti della famiglia (il cosiddetto “quoziente familiare” per quanto riguarda l'applicazione dell'Irpef, perché il reddito di una persona che vive da sola non può essere tassato in modo uguale ad un reddito che sostiene una intera famiglia); a particolari graduatorie nell'assegnazione degli alloggi di edilizia popolare o convenzionata, che tengono conto dello stato di famiglia, ad una riforma sulla legge sull'aborto per garantire una autentica e vera tutela della maternità attraverso sostegno materiale, psicologico e morale alla donna.

Da ultimo, ma non per ultimo, occorre promuovere una vera e propria rivoluzione della mentalità collettiva per passare dalla corsa sfrenata verso modelli sociali di consumismo, edonismo, ed individualismo sfrenati alla riscoperta dei valori familiari naturali e tradizionali, sulla base dei quali allevare ed educare un figlio significa dare un senso alla propria vita e quindi non solo gratificare e realizzare la persona, ma assicurare anche la continuità di un popolo che voglia essere soggetto di storia e di civiltà.

Per quanto riguarda infine la necessità di tutelare la nostra identità di popolo essa nasce dalla consapevolezza che le identità, anche quelle diverse dalla nostra, sono tutte meritevoli di rispetto e di tutela e che tutti i popoli hanno diritto di rivendicare le rispettive specificità. Scriveva San Giovanni Paolo II su questo tema: “dal punto di vista cristiano le nazioni e le patrie sono una realtà umana di valore positivo e irrinunciabile, che fondano dei diritti inviolabili in seno ai vari popoli ed in particolare il diritto dei popoli alla propria identità ed al proprio sviluppo”.

Senza prevaricazioni e senza complessi di superiorità perciò non si può far finta di ignorare che il popolo italiano, insieme agli altri popoli europei è stato ed è protagonista della creazione di una identità civile, giuridica, etica, culturale ed estetica che rischia di perdersi e di annegare non solo nel nuovo fenomeno della mondializzazione della cultura e della globalizzazione dell'economia e della finanza, ma anche di venir dissolta sotto la spinta di una pressione migratoria non regolata e non controllata.

Questo non dovrà accadere. E non tanto per noi e per la nostra generazione, ma per i nostri figli, per i nostri nipoti e per l'intera comunità internazionale.

Mettere a repentaglio un patrimonio storico, culturale e spirituale, che non appartiene solo a noi ma all'intera umanità, non rientra nella facoltà e nei diritti di una classe dirigente e nemmeno di una generazione. Distruggere e disperdere sotto la pressione multietnica e pluriculturale di “altre” visioni del mondo e della vita, di cui sono portatori uomini sradicati dai loro ambienti d'origine, non solo il retaggio di un glorioso passato, ma anche la testimonianza di quello che ha rappresentato il cammino della civiltà dell'uomo, sarebbe un delitto universale che nessuno dei nostri posteri potrebbe mai perdonarci; Nemmeno con la giustificazione e l'alibi della solidarietà nei confronti di chi ha più bisogno.

Riccardo Pedrizzi