Impresa familiare e globalizzazione

Ci sono degli stereotipi, delle leggende metropolitane “delle” e “sulle” imprese familiari che facilmente possono essere smontati. Si dice che sarebbero tutte piccole, che durerebbero di meno nel tempo, che non crescerebbero, che mancherebbe la meritocrazia, che avrebbero una bassa capitalizzazione.

Invece l'impresa familiare è fortissima e non solo per i valori che incarna.

Perché ha un azionariato più stabile e da più garanzie sul lungo termine; perché non è legata ai valori di borsa e perché è fortemente legata al territorio d'appartenenza.

Basta fare analisi serie per uscire dai luoghi comuni con cui vengono descritte le imprese familiari. Si scopre così come siano proprio le imprese familiari a dare continuità e stabilità ad una politica economica, infatti il controllo familiare si traduce in vantaggio competitivo per l'ottica di lungo termine.

Le aziende familiari inoltre tendono ad essere meglio patrimonializzate. Il loro indebitamento è in media inferiore del 20% rispetto alle concorrenti a controllo pubblico, così come inferiore è la quota di utili destinata ai dividendi perché si preferisce lasciarli in azienda. Oltretutto si fanno maggiori investimenti.

Questa maggiore attenzione alla solidità di bilancio produce una crescita maggiore di fatturato, di margini e flussi di cassa.

Qualche numero: le imprese su base familiare rappresentano il 90% del totale del pianeta. Secondo il Boston Consulting Group il 33% delle società americane, il 40% di quelle francesi e tedesche sono ancora controllate da famiglie. Questo vale anche per l'Italia dove le imprese familiari rappresentano il 61% della Borsa di Milano ed il 59% delle società con fatturato oltre i 50 milioni di euro.

La public company, dunque, non è l'unico modello possibile ed il capitalismo familiare non è più considerato come un'eccezione rispetto a quel modello.

Le aziende a controllo familiare non sono affatto in via di estinzione anche in Europa. Anzi. Rispetto al 2005: si è passati dal 15% al 19% nelle imprese del Fortune Global 500; 36,7% in Germania, 36% in Francia, 35,6% in Spagna e 32,9% in Svezia. Supera tutti gli altri paesi l'Italia, dove il capitalismo familiare è predominante come modello, (In Italia l'85% delle imprese private sono familiari e queste impiegano oltre il 70% della forza lavoro totale.) e rappresenta un volano di crescita e durante la crisi ha fatto registrare performance migliori e perdite più contenute rispetto alle altre imprese, è presente con il 40,7% tra le 300 imprese più grandi del Paese.

In Italia poi alcune di esse sono diventate internazionali, come Luxottica della famiglia Del Vecchio, Autogrill ed Autostrade della famiglia Benetton, De Agostini Gtech della famiglia Boroli – Del Drago, Riso Gallo della dinastia Preve, Giorgio Armani dell'omonimo stilista, ma anche Nice, la società quotata fondata da Lauro Buoro, Umbra Cuscinetti guidata da Antonio Baldaccini, Brembo di Alberto Bombassei, Betty Blue di Elisabetta Franchi, Campari presieduta da Luca Garavoglia, Branca guidata da Niccolò Branca, la Lavazza, la Tod's della famiglia Della Valle, la Batam conosciuta come Nero Giardini, dei Flli Bracalente. Quattro aziende su cinque nella moda sono a conduzione familiare. Le aziende familiari italiane continuano a mostrarsi più resistenti delle altre. E ce ne sono alcune, circa 200, che vanno decisamente meglio di tutte le altre e che a partire dall'anno di crisi 2008 sono decollate. Queste imprese si concentrano nel Nord Italia, e in particolare nel Nord-Est ma anche in Lombardia, nelle Marche ed in Toscana. Sono più internazionalizzate delle altre, grazie a investimenti realizzati all'estero e al presidio di un maggior numero di Paesi. I dati dell'Osservatorio Aub mostrano come le aziende familiari abbiano attuato in misura maggiore una strategia di internazionalizzazione tramite Ide: circa il 30% ha effettuato almeno un investimento diretto all'estero alla fine del 2014 (contro il 21,3% degli altri tipi di impresa), e tale propensione cresce con la dimensione aziendale. Di pari passo cresce anche la capacità delle aziende più grandi di presidiare più mercati contemporaneamente. Si tratta di aziende che hanno fatto il salto di qualità e dimensionali ed oggi stanno avendo successo nonostante la crisi degli ultimi anni.

Per riassumere alcuni fattori in particolare rendono competitive questo tipo di imprese: 1) Capitale “paziente”: la famiglia proprietaria è capace di subordinare i propri personali interessi di breve termine all'obiettivo dello sviluppo di lungo periodo; 2) governance professionale e disciplinata: i familiari sanno ben distinguere tra i ruoli di socio, amministratore e manager e aprono i consigli di amministrazione al contributo di amministratori non familiari; 3) Leadership aziendale scelta secondo criteri meritocratici: superata la fase del fondatore, la scelta del nuovo leader avviene sulla base di un processo di selezione che eviti accuratamente il rischio del nepotismo; 4) Cultura del “valore condiviso”: in cui l'imprenditore e la sua famiglia hanno saputo condividere i propri valori e anche i frutti del proprio lavoro con i dipendenti e la comunità.

Ma anche in altri Paesi, non poche tra le maggiori imprese mondiali sono sottoposte a un controllo famigliare: la più grande per fatturato, Wal Mart, è per l’appunto una impresa famigliare. Non è quindi vero che la famiglia impedisce all’azienda di crescere, o almeno non sempre. La famiglia esprime spesso una capacità di resistenza, anche nelle circostanze avverse. Un esempio: nella crisi che colpì l’industria automobilistica americana dopo il 2008, l’unica delle tre grandi case di Detroit che non fece ricorso agli aiuti dello Stato, fu la Ford, che registra tuttora la presenza determinante, nel capitale e nel board, della famiglia del fondatore.

In Italia, nello stesso settore automobilistico, dopo la scomparsa di Gianni e Umberto Agnelli la famiglia decise di non cedere l'azienda in un momento difficilissimo e pochi anni dopo è stata protagonista del recupero di Chrysler, una delle società automobilistiche americane.

La famiglia, come si vede, difende a tutti i costi l’azienda in cui si identifica, sia perché rappresenta per essa un valore non soltanto finanziario, sia perché ne conosce meglio degli esterni le capacità di recupero. Nell'impresa familiare conta molto anche il desiderio di preservare la reputazione e di assicurare il controllo alle generazioni successive questo induce a una maggiore dedizione, una maggiore responsabilità e tiene bassa la conflittualità tra proprietà e lavoratori. Volontà di questo tipo difficilmente si trovano nelle società a capitale diffuso, in cui i manager hanno convenienza a decidere in base alle quotazioni di borsa ed agli interessi degli azionisti, cioè in base al profitto immediato, facendoli prevalere su ogni considerazione di lungo termine.

L’Osservatorio Aub (Aidaf, Unicredit e Bocconi) sulle aziende familiari italiane, monitora più di 15.700 aziende con fatturato superiore a 20 milioni di euro che contribuiscono a generare un fatturato di circa 2.000 miliardi di euro e un valore aggiunto di 458 miliardi di euro, impiegando 4,7 milioni di dipendenti (di cui 3,8 in Italia). Di queste, le aziende a controllo familiare sono 10.250 (pari al 65%), e contribuiscono a generare un fatturato complessivo di 790 miliardi di euro. In termini di occupazione, impiegano 2,3 milioni di dipendenti nel mondo e 1,5 milioni in Italia.

Nel decennio 2005-2015, infatti, le Pmi hanno realizzato il 43% dei deal perfezionati in Italia. Inoltre fatto 100 i ricavi del 2007, nel 2015 le imprese familiari medio-grandi sono arrivate a 145,2, mentre le altre a 131,8. «Le più grandi sono tornate ai livelli pre crisi e ora sono sovra capitalizzate perché le proprietà hanno ridotto la politica dei dividendi e le banche hanno chiesto di ridurre l’indebitamento». La quota di imprese familiari con Roi negativo è quasi ritornata ai livelli pre crisi e la sotto-capitalizzazione nella maggiore parte dei casi ormai appartiene al passato. Anche quest'anno, secondo l'ultimo Rapporto AUB, il 9° del 2017, le aziende familiari escono vincenti, perché continuano ad assumere: +15,1% tra il 2011 e il 2015 e +5% nel 2016, più delle cooperative e dei consorzi (+10,5% e +3,9% rispettivamente); meglio delle società controllate da private equity, che hanno ridotto i dipendenti del 7,6% tra il 2011 e il 2015 e li hanno diminuiti dell'1,1% anche nel 2016; e sopratutto meglio delle società controllate dallo Stato che vedono un calo del 12,8%. “Dai dati di quest'anno emerge; - ha dichiarato Elena Zambon presidente di AIDAF, l'associazione delle aziende familiari - la capacità delle imprese familiari di creare occupazione anche in periodi difficili e sopratutto in confronto con le altre tipologie di imprese. Questo conferma come le imprese familiari abbiano forza e la capacità di incidere non solo sul contesto economico in cui si muovono, ma anche sugli aspetti sociali”. C'è solo una debolezza da registrare: tra le 500 imprese del nostro Paese che superano i 500 milioni di fatturato solo 178 sono quelle a conduzione familiare, per cui l'imperativo che bisogna trasmettere alle future generazioni è quello della nascita.

La IX edizione dell'Osservatorio AUB ha preso in esame 15.495 aziende con fatturato superiore ai 20 milioni. Di queste 10.068 (il 65%) sono a conduzione familiare.

Vediamo alcuni dati:

L'andamento dell'occupazione nell'ultimo quinquennio

Imprese Familiare AUB: +15,1%, nel 2016: +5,0%; Statale o Ente Locale: -12,8%, nel 2016 +0,5%; Cooperative o consorzi: +10,5%, nel 2016 +3,9%; Controllata da fondi: -7,6%, nel 2016 -1,1%

I ricavi delle aziende familiari sono cresciuti circa 10 punti in più delle non familiari nell'ultimo decennio. Le aziende familiari continuano a mantenere un gap positivo di redditività operativa +9,1%, le non familiari +7,9%; un gap positivo di redditività netta, +11,4%, non familiari +8,9%. Anche nel 2016 le aziende familiari hanno un minor livello di indebitamento (5%) rispetto al 6%, delle non familiari. A partire dal 2009 le aziende familiari hanno una maggiore capacità di ripagare il debito (5,3%), rispetto alle altre non familiari (4,9%).

Credit Suisse, in un recente report, ha analizzato le performance delle società quotate a controllo familiare nel corso di oltre 10 anni, mettendole a confronto, sia con il resto del mercato, sia con aziende concorrenti ma a controllo pubblico. Le 1000 aziende familiari di tutto il mondo prese in esame hanno garantito un ritorno cumulato del 126% dal 2006 ad oggi. Il 55% in più della media dei mercati azionari globali. Le società quotate a controllo familiare hanno fatto meglio non solo della media del mercato, ma anche delle loro concorrenti non quotate.

Uno dei dei problemi decisivi per il destino delle aziende familiari però è quello della successione. Meglio puntare sulla continuità familiare col rischio che i familiari non siano all'altezza del compito, oppure è meglio affidarsi a professionisti esterni, se non addirittura vendere e passare la mano? Uno studio del Cert (Centro Ricerca sulle imprese di Famiglia) su un campione di imprese con fatturato da 15 a 150 milioni, che hanno visto il passaggio generazionale, ha fatto rilevare che su 34 successioni se ne sono concluse positivamente il 71%, mentre hanno avuto esito negativo il 12% ed il 17% è ancora in atto.

Il problema del capitalismo familiare spesso sono proprio gli eredi perché riluttanti ad assumere la guida delle aziende. Non c'è da sorprendersi, perché si tratta di scegliere tra vivere comodamente di rendita, sperperando il patrimonio accumulato dai padri e vivere lavorando sodo, con grandi responsabilità e la probabilità di fare peggio di chi li ha preceduti. Si sceglie perciò la seconda opzione solo quando si è ricevuta un'educazione imprenditoriale, altrimenti è facile e comodo scegliere la prima, sopratutto quando l'impatto fiscale non aiuta. Il legislatore perciò dovrebbe prevedere adeguate misure per agevolare questo tipo di successioni. Secondo quanto evidenziato dall'Osservatorio Aub, in Italia vi è una presenza dominante di aziende longeve: le aziende fondate da più di 25 anni sono oltre il 60%. La maggiore longevità delle aziende è strettamente connessa al tema del passaggio generazionale: quasi 2/3 di queste aziende hanno già affrontato in passato almeno un passaggio generazionale con successo, poche (meno del 2% all'anno) lo hanno affrontato degli ultimi anni e molte saranno probabilmente in procinto di affrontarlo nei prossimi anni. Le analisi di performance suggeriscono di non ritardare oltre il passaggio generazionale, in quanto le aziende condotte da leader ultrasettantenni hanno conseguito risultati mediamente inferiori sia in termini di redditività che di crescita.

La sfida dunque per i capifamiglia non è “passare” semplicemente l'azienda, bensì generare nuova capacità imprenditoriale di cui l'azienda si nutre, e sopratutto, trasmettere valori e la consapevolezza che anche oggi le aziende familiari vanno di moda e piacciono ai manager per la loro visione di lungo termine, ai politici perché creano posti di lavoro relativamente più sicuri ed all'opinione pubblica perché mantengono un legame con le comunità locali.

Riccardo Pedrizzi