Italia in ginocchio

Alla domanda che gli ha fatto Mario Sensini del "Corriere della Sera": «Le grandi imprese straniere stanno puntando i nostri “campioni”. È preoccupato?». Il Ministro Carlo Calenda ha risposto: «Dipende: nella maggior parte dei casi gli investimenti esteri portano crescita ma dovremo comunque essere pronti a una tutela più assertiva degli interessi e degli asset economici nazionali strategici nei confronti dei partner, anche europei, che spesso usano in modo più coordinato e aggressivo di noi il sistema Paese. Entriamo in una stagione dove il nazionalismo economico si rafforzerà in tutto il mondo. Non dobbiamo abbracciarlo, ma neanche essere impreparati ad affrontarlo.».

Il riferimento a Mediaset o alle ostilità tedesche al piano per Monte Paschi è chiaro.

«Inoltre - ha aggiunto il Ministro - dobbiamo ricostruire una rete fatta di grandi aziende, pubbliche e private, e di istituzioni finanziarie capaci di muoversi all’occorrenza in modo coordinato, tra di loro e insieme al governo.»

In effetti fino ad oggi pur essendo da anni iniziata la "campagna d'Italia" per mettere le mani sui gioielli di casa nostra, la politica ha continuato a disinteressarsene, governo e parlamento compresi.

La società Vivendi, infatti, che è già titolare al 15 dicembre 2016 di una partecipazione significativa in “Telecom Italia”, pari al 23,9%, tale da conferirle una posizione di controllo di fatto o comunque di “material influence”, ha recentemente acquisito una partecipazione in Mediaset che è salita al 28,8 del capitale complessivo ed al 29,9 dei diritti di voto, spendendo in otto sedute di Borsa ben 1,17 miliardi e sfiorando la soglia dell'Opa (offerta pubblicitaria di acquisto).

Il finanziere bretone, Vincent Bellorè, che ha creato un impero in Francia che va dai pasti alle vetture elettriche, passando per Telecom Italia e Generali, sta cercando di creare un gigante delle TV, avendo a disposizione un cash flow di oltre 2,1 miliardi e tanta liquidità (utile netto dal 20/16 è stato di 1,175 miliardi di Euro). Ma non basta perché proprio recentemente l'operazione Luxottica – Essilor, che ha fatto nascere il campione mondiale dell'occhialeria con 50 miliardi di capitalizzazione, 140 mila dipendenti, un mercato di 150 Paesi, rischia con la quotazione nella Borsa di Parigi e l'uscita da quella di Milano di finire anche'ssa in mano francese, quando il patron italiano Leonardo Del Vecchio si ritirerà.

L'Italia rischia così di “perdere ulteriori pezzi” della sua industria, dopo che scorribande vi sono già state in tutti i settori merceologici: dall'alimentare alla meccanica, dall'elettronica alla finanza, dall'automotive al petrolio, dal tessile alle Pmi con produzione di eccellenza, dall'agroalimentare all'informatica, dall'alta moda alle telecomunicazioni ed in pratica a tutti i prodotti del made in Italy.

Il Made in Italy è diventato un boccone particolarmente appetibile e a prezzi scontati, soprattutto per le aziende quotate, che in questi anni di crisi hanno visto precipitare la loro capitalizzazione di 27 e 32 miliardi tra il 2014 e il 2015 e 19 puntati nell'anno appena concluso

Ma l'aspetto più preoccupante è quello di alcune Pmi che guardano ormai solo all'estero per le loro esigenze di liquidità, a cui non fa fronte da anni il sistema bancario italiano.

La situazione è diventata talmente preoccupante che persino i servizi segreti lanciarono qualche anno fa l'allarme nella Relazione presentata al Parlamento italiano contro "l'azione aggressiva di gruppi esteri" che mirano ad acquistare "patrimoni industriali, tecnologici e scientifici nazionali", nonché "marchi storici".

«L'attività informativa ha confermato il perdurante interesse da parte di attori esteri nei confronti del comparto produttivo nazionale, specialmente delle Piccole e Medie Imprese (PMI), colpito dal prolungato stato di crisi che ha sensibilmente ridotto tanto lo spazio di accesso al credito quanto i margini di redditività. L'attenzione dell'intelligence - era scritto nella relazione - si è prevalentemente appuntata sulla natura dei singoli investimenti, per verificare se gli stessi siano dettati da meri intenti speculativi o da strategie di sottrazione di know-how e di svuotamento tecnologico delle imprese, con effetti depressivi sul tessuto produttivo e sui livelli occupazionali...

«In tal contesto - continuavano i nostri servizi segreti - le evidenze raccolte hanno posto all'attenzione quelle strategie d'investimento estero che, finalizzate al controllo di talune imprese nazionali attive nel settore manifatturiero, si sono tradotte nell'acquisizione di marchi e brevetti, nell'accaparramento di quote di mercato e, in un'ottica di contrazione dei costi, nella delocalizzazione dei siti produttivi ovvero nel trasferimento oltreconfine dei centri decisionali»...

Ma i più aggressivi sono, non da oggi, i cugini d'oltralpe che avevano cominciato con la grande distribuzione (Carrefour rilevò Gs) per poi occupare altri spazi con i supermercati Auchan, i grandi magazzini Brico e Decathlon: Poi sono passati all'energia: nell'elettricità Edf (Electricitè de France) prese il controllo di Edison, aprendo così la strada a Suez-Gdf. Poi i francesi sono arrivati anche alla finanza: BnpParibas rilevò la Banca Nazionale del Lavoro, Cariparma e Friuladria da tempo sono sotto il controllo del Credit Agricole, che ha pure la Cassa di Risparmio di la Spezia e gli sportelli trasferiti direttamente da Intesa San Paolo, facendo da apripista a Societé Generale e, nelle assicurazioni, a Groupama, Dexia e l'asse Mps-Axa. Le assicurazioni sono un comparto nel quale si parla spesso francese (ad esempio nelle Generali, con Vincent Bollorè e, sopratutto, con il suo amministratore delegato, Philippe Doumat connazionale del ceo di Unicredit Mustier che dal suo canto ha dovuto smentire a “La Stampa” che la sua banca stia “tramando” per sostenere il colosso assicurativo AXA nella scalata alla compagnia di Trieste, che resta attualmente l'unica vera multinazionale del nostro Paese.

 

Genish torna con Bollorè

Amos Genish manager innovativo dopo che la società di Curitiba era stata ceduta da Vivendi, era passato a lavorare per gli spagnoli come ceo di Telefonica Brasil. Ora Bollorè l'ha subito reingaggiato affidandogli un ruolo inedito nell'organigramma del gruppo: quello di “chief convergence officer”. Forse per gestire l'integrazione tra Telecom e Mediaset?

 

Ma proprio negli ultimi tempi si stanno addensando nubi sul nostro campione del credito, Unicredit, la cui vicenda di ricapitalizzazione sta passando sotto silenzio, come ha rilevato recentemente Cirino Pomicino su “Il fatto quotidiano”. Il francese Jean Pierre Mustier, Amministratore delegato dell’Istituto bancario, infatti, ha presentato un piano industriale che prevede non solo un taglio di 833 filiali e di 14 mila dipendenti, ma anche un aumento di capitale di ben 13 miliardi di euro più la cessione di oltre 17 miliardi di crediti deteriorati. Si tratta di un aumento di capitale di quasi due volte quello richiesto dalla BCE per Mps. Mustier ha già venduto ai francesi di Amundi la società Pioneer per 3,5 miliardi, la partecipazione nella polacca Bank Pekao per circa 3 miliardi e il 30% di Fineco Bank per 880 milioni. Diventa perciò difficile non immaginare che, ad esempio, grandi società francesi non sottoscrivano in maniera massiccia sul mercato l'aumento di capitale, mangiandosi un altro pezzo pregiato del nostro sistema economico, peraltro strategico per il nostro Paese.

Ma è soprattutto nei marchi del lusso e della moda che si è fatta sentire l'azione aggressiva “dello straniero” ed in particolare dei francesi negli ultimi anni, che dal 1996 al 2016 hanno fatto complessivamente acquisizioni per 101,5 miliardi di euro.

La francese Lvmh, che sì era già assicurato il marchio Fendi, ha poi rilevato Bulgari la società romana, i cui gioielli fanno sognare le donne di tutto il mondo. Prima era stata la Moncler (specializzata nella produzione di piumini) a passare in mani francesi. Dopo Bulgari, il marchio Louis Vuitton Moet Hennessy (Lvmh) ha raggiunto un nuovo, importante traguardo con l'acquisizione del controllo dell'80% della griffe del cachemire Loro Piana, fiore all'occhiello tra i marchi italiani. Ma il gruppo del lusso francese si è lanciato anche nella pasticceria, dimostrando di voler giocare a tutto campo in ogni settore merceologico, acquisendo la storica pasticceria milanese Cova, piccolo fiore all'occhiello di Milano. Il gruppo del lusso francese ha acquisito la maggioranza delle quote della società, finora interamente in mano alla famiglia Faccioli. Lvmh è ben presente nel luxury food: è leader mondiale nel settore vini, dove controlla tra gli altri Château d'Yqem, Hennessy e Krug. Anche se il focus dell'attività è il fashion, il gruppo presidia il settore contiguo dell'hôtellerie di lusso: con l'insegna Cheval Blanc ha aperto un resort da favola a Courchevel, nelle Alpi francesi.

Anche Gucci, dopo Bottega Veneta, è diventato francese (Pinault-Printemps-La Redoute) e recentemente come Kering, nuovo nome del gruppo Ppr guidato da Francois-Henri Pinault, dopo Richard Ginori (acquisita attraverso Gucci) ha assunto il controllo di Pomellato che dunque, è diventato francese, come molti altri gruppi di lusso (e non solo del lusso): Gucci, Bottega Veneta, Brioni, Richard Ginori, (scuderia Kering -Ppr), Fendi e Pucci (scuderia Lvmh)...

Altro settore che ha visto nel corso del tempo delle scorribande francesi è quello della grande distribuzione e dell'alimentare.

Nelle mani del fondo di private equity francese Pai Partners è finita la catena Coin e sempre la francese Andros aveva acquistato la Fattoria Scaldasole e Lactalis si prese Invernizzi e Parmalat (recentemente ha chiesto a Consob di acquisire un ulteriore 12% del capitale di Parmalat) senza che vi fosse alcuna resistenza da parte nostra, cosi come avvenne per Carefour che rilevò la SME.

Mentre in Francia, quando vi fu il tentativo di scalata di Danone da parte di Pepsi Cola e Coca Cola e di Enel di crescere oltralpe e dell'Alfa Romeo di allearsi con Renault, intervenne il governo a difendere simboli nazionali, da noi tutto avviene senza alcun contrasto da parte dei vari governi.

Di fronte a questo scenario drammatico il Governo Monti aveva deciso di proteggere le società strategiche dalle scalate ostili straniere, riformando le norme sui poteri speciali di intervento attribuite all'Esecutivo con la cosiddetta “golden share” da esercitarsi non solo sulle aziende pubbliche, ma anche su quelle private che operano in settori riconosciuti come strategici e di interesse per l'economia nazionale.

Tutte le maggiori potenze industriali hanno posto limiti alla presenza straniera in settori strategici ed anche noi lo facemmo nel 1994 con la legge sulle privatizzazioni di cui fu relatore chi scrive. Ma quella normativa evidentemente non bastava.

Perché la “golden share” non può essere considerata solo come uno strumento fine a se stesso per tutelare i “campioni nazionali”. Bisogna che i campioni nazionali si creino prima. La Francia è un modello di riferimento: prima negli anni 80 ha selezionato i settori strategici, dopo ha fatto investimenti anche con incentivi, per far nascere i “campioni”. Poi ha introdotto la “golden share” per proteggere l'economia nazionale.

Anche noi iniziammo a seguire la stessa politica con il primo Governo Berlusconi.

Ed il programma individuava due strumenti già utilizzati per le privatizzazioni in altri paesi: la golden share e i nuclei duri o stabili. Ma non bastò anche perché, tardarono i regolamenti per la sua applicazione tanto che il governo Letta fu costretto a ritornare sull'argomento. Fu emanato il Decreto del Presidente del Consiglio (Dpcm) con il regolamento che includeva la rete fissa di Telecom tra gli “attivi di rilevanza strategica nel settore delle comunicazioni” sui quali il governo ha i poteri speciali, per l'attuazione della legge sul golden power (il Dpcm 30 novembre 2012, numero 253, “recante individuazione delle attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale”). Ma evidentemente nemmeno questi ulteriori provvedimenti riescono ad impedire l'assalto alle nostre aziende.

Riccardo Pedrizzi