Mezzogiorno e la cultura del piagnisteo

La polemica innestata qualche tempo fa da Vittorio Feltri con le sue parole sulle capacità, le attitudini, l’inferiorità del Sud ha scatenato ancora una volta le opposte tifoserie nordiste e sudiste in un momento in cui serve invece unità, solidarietà e coesione sociale.

Vediamo perciò con quanta più obiettività possibile come stanno veramente le cose nel Mezzogiorno d'Italia.

Qualche tempo fa il Censis rilevò come la comunità meridionale si andasse sempre più parcellizzando in gruppi chiusi, separati e non dialoganti. E la Fondazione Res spiegava che resta un’incompiuta la cooperazione tra imprese. Successivamente arrivò un saggio per i tipi di Rubbettino, i cui autori Mariano D’Antonio, Matteo Marini, Sonia Scognamiglio, Annalisa Marini, Antonio Russo, Lucia Cavola, Achille Flora, Giovanni Laino, Francesco Pastore, Sara Gaudino, Giuseppe Leonello, Roberto Celentano, individuavano la causa dei mali del Sud, negli stessi meridionali, in particolare nella loro scarsa attitudine a rispettare le regole, nella scarsa fiducia reciproca, nel sospetto e invidia sociale, nel familismo amorale e poi nell’evasione fiscale e contributiva, nell’assenteismo per malattia, nell’inflazione dei diplomi e delle lauree, nel mancato pagamento delle tariffe del trasporto pubblico locale. «Lo scarso senso civico – scriveva D’Antonio – è effetto e al tempo stesso concausa dell’insufficiente sviluppo: la povertà spinge a violare le regole, l’illegalità a sua volta ostacola la riduzione della povertà ». Di qui i reati segnalati dalla Corte dei conti: la corruzione è al 42% del totale nazionale, la concussione al 53%, l’abuso d’ufficio arriva al 62%. (Tutti i dati e le citazioni sono tratti da Riccardo Pedrizzi – Il Salvadanaio. Manuale di sopravvivenza economica – Guida Editori – Napoli 2019).

A queste miriadi di difetti o, quantomeno di mancanze di qualità etiche, civiche e sociali si aggiunge un fattore che, oltre al clientelismo, la corruzione, il diffuso basso livello d’istruzione, ci accomuna veramente alla Grecia ed è “la cultura del piagnisteo”, con la tendenza d’addebitare tutti i guai del Mezzogiorno all’azione di forze esterne. Se le cose vanno male, – scrisse Luca Ricolfi sul “Il Sole 24 Ore” – è sempre colpa di qualcun altro: la storia, l’unità d’Italia, i piemontesi e l’occupazione, l’Europa, il Nord e il governo centrale. La politica nazionale ha ovviamente le sue responsabilità, prime fra tutte quella di non aver dotato il Sud di una rete di infrastrutture decente, il mancato controllo del territorio ecc. ecc., ma si dimenticano le gravissime responsabilità delle classi dirigenti locali, sulla connivenza che la gente del Sud ha nei confronti delle proprie classi dirigenti. Se il resto del paese è più ordinato del Mezzogiorno, se gli sprechi della Pubblica amministrazione sono più contenuti, ci sarà pure un motivo. “Ormai 35 anni fa Manlio Rossi Doria concludeva uno scritto sui cent’anni di questione meridionali con le seguenti parole. ‘Non vi è dubbio che nelle caratteristiche di una larga parte delle classi dirigenti meridionali vada ancora oggi individuato, a distanza di un secolo da quando per la prima volta se ne parlò, uno dei nodi più gravi e decisivi della ‘questione meridionale’” (M.R. Doria, Scritti sul mezzogiorno, L’ancora del mediterraneo, 2003, p. 222)».

Chi scrive, da sempre sostenitore della causa del Mezzogiorno, difensore della storia meridionale soprattutto preunitaria e borbonica, tanto da essere gratificato dalla Casa Borbone con l’Ordine cavalleresco Costantiniano di San Giorgio, condivide da sempre questa analisi. Aver da decenni attribuito le cause dei mali del Sud a fattori esterni ed a forze estranee alla società ed alla storia meridionali non solo ha contribuito a deresponsabilizzare le classi dirigenti e la politica, ma ha creato in certi ceti sociali (la borghesia in particolare), che avrebbero dovuto rappresentare e costituire l’ossatura della struttura istituzionale, amministrativa e burocratica dello Stato e degli enti locali, una mentalità diffusasi poi in tutta la popolazione secondo la quale tutto è dovuto e niente si deve fare per cambiare la situazione. “Così è diventato preponderante il concetto del posto pubblico come vademecum di tutti i problemi”. (cf. Rapporto Unimpresa). “Non c’è dubbio, dunque, che il problema è innanzitutto nelle istituzioni, prima ancora che sul versante economico: la classe dirigente del Sud è stata orientata a una ricerca clientelare e assistenziale del consenso, che ha solo drenato risorse e i governi nazionali lo hanno tollerato in cambio di voti”, come dichiarò Carlo Triglia, professore di sociologia economica a Firenze, già ministro per la Coesione territoriale nel governo Letta. Il ruolo perciò delle istituzioni pubbliche è cruciale. Nel Sud, anche per ragioni storiche, si è affermato e aggravato un modello di potere predatorio. Proprio per questo siamo obbligati a dar ragione persino a Matteo Renzi quando anni fa diceva alla direzione del Pd, convocata per affrontare l’emergenza Sud dopo i dati del rapporto Svimez: “Se il Sud è in difficoltà non è colpa di chi lo avrebbe abbandonato. La retorica del Sud abbandonato è autoassolutoria. L’autoassoluzione è un elemento che concorre alla crisi del Mezzogiorno”. La verità è che oggi nel Sud non si può fare a meno di quella eredità storica che è in grado di esprimere quella forza vitale che deve dirigere e alimentare il “benessere” di un paese. Massimo Lo Cicero in: “Sud a perdere? Rimorsi, rimpianti e premonizioni”, (Rubbettino, 2010, p. 151.) scrive: “La teoria della crescita insegna che la prima fragilità dei deboli nasce dalla perdita della conoscenza accumulata nelle proprie radici”. (Lo Cicero cit., p. 164.). «Tale conoscenza ovviamente non rinvia al sapere che deriva dalla tradizione, né tanto meno della potenza della nostalgia e della memoria, ma appunto si qualifica come “conoscenza accumulata” come deposito del dato collettivo del sapere sociale e del capitale sociale, come riconoscimento reciproco di comportamenti e atteggiamenti virtuosi e creatori di ricchezza comune».

Il Sud però non è affatto una terra arretrata e sottosviluppata, era ed è solamente una realtà “diversa” da quella del resto d’Italia, ancora abbastanza compatta nella struttura sociale, dotata in larghi strati della popolazione di una radicata cultura tradizionale, legata ancora ad un cattolicesimo vissuto e concepito in maniera completamente diversa da come lo si vive altrove. È stato perciò un grave errore tentare di omologare tutto ciò, schiacciare ed annichilire le particolarità, le peculiarità, gli usi, i costumi, le tradizioni, persino la lingua. Infatti per oltre un secolo e mezzo si è inculcato, nell’animo di ogni generazione di meridionali, il sentimento della sconfitta e della rassegnazione, un autodistruttivo fatalismo che ha costituito la psicologia individuale e, soprattutto, la psicologia collettiva dell’intero popolo meridionale. E poiché questo sentimento è stato prodotto principalmente dalla falsificazione storiografica ufficiale chiusa nella cerchia di ambienti ristretti fortemente impregnati di una cultura illuministica, è venuto il tempo di lanciare un’offensiva culturale di largo respiro, cogliendo, eventualmente, le opportunità di alleanza con quei settori del mondo economico ed imprenditoriale meridionale che siano sensibili ad un progetto di autentico sviluppo del Meridione. Per questo la rivisitazione, la ricostruzione e la riconsiderazione del nostro “Risorgimento” sarebbe forse un’operazione culturale e storica utile per individuare più correttamente la nostra identità e per riappropriarci delle nostre vere radici. Ed allora bisogna chiedersi possono oggi la stessa storia e la cultura esser “maestra di vita” e forza di sviluppo? Il voler far rivivere, ai nostri tempi, usi e tradizioni sviluppatisi nel corso dei secoli potrebbe a prima vista apparire anacronistico o comunque di ostacolo alla naturale crescita economica di un territorio. Ma non è così. Recentemente infatti si incominciano ad intravedere i segni di una maggiore consapevolezza della nostra storia che individua nel “vuoto di memoria” la causa principale dell’attuale perdita dell’identità meridionale ed anche il tramonto delle nostre tradizioni economiche e culturali che, fino all’800, avevano contribuito a rendere le nostre regioni non solo meta preferita dei viaggiatori stranieri, ma anche centri di produzione e di scambi internazionali. Un progetto ambizioso quanto difficile per il decollo del Sud, quindi, deve partire da qui. Una verità appare evidente: la cultura, per quanto rinvigorita da nuovi spazi e mezzi, ancora non riesce oggi

nel Meridione né a favorire uno sviluppo di “benessere”, (benessere inteso non solo e non tanto in termini patrimoniali e materiali, ma soprattutto quale ricchezza morale e civile), né ad ottenere una diffusione su vasta scala, soprattutto in ambienti quali quelli dell’economia. Se davvero vogliamo riconoscere alla cultura una funzione propulsiva per il risveglio del Mezzogiorno e delle sue attività, bisogna renderla patrimonio disponibile per tutti. In un Sud che manifesta solo in rari casi attitudini industriali e che, quindi, rivolge le sue attenzioni principalmente alla produzione turistica, artigianale e agricola, nonché a tutte le conseguenti attività commerciali, non si può fare a meno dell’eredità storica che è invece in grado di esprimere quella forza vitale che deve dirigere e alimentare l’economia e il “benessere” di un paese. E dunque, bisogna riportare alla luce tutto questo patrimonio sommerso nelle miniere e nei giacimenti della nostra storia. Infatti solo attingendo al comune bacino dell’identità può generarsi una efficace e redditizia simbiosi tra cultura e impresa: l’economia, recuperando le sue forme naturali (cosiddetta “economia della tradizione”), tornerà così ad essere espressione culturale e la cultura, dal suo canto, potrà diventare il volano dell’economia. Occorre creare perciò nuove possibilità di “intervento attivo” dell’imprenditoria, che consentano di ottenere immediati benefici nella vendita e nella qualità del proprio prodotto. Nell’ambito di una grande strategia di sviluppo, va riconosciuto perciò agli imprenditori un ruolo di fondamentale importanza: – il prodotto, se rinvigorito da tutte le qualità desunte dalla tradizione storica, potrà avere una veste nuova ed antica, nello stesso tempo, che sia vincente sui mercati nazionali e stranieri; – dall’intervento diretto degli imprenditori nelle attività di promozione dei luoghi ove essi operano, deriverà ai loro prodotti il beneficio di un valore aggiunto derivante proprio dal legame con la terra di origine. Tutto questo significa Economia Tradizionale. Il Mezzogiorno d’Italia è come un genio imprigionato in una lampada. Aspetta un Aladino che lo faccia solamente uscire. Segnali propositivi ce ne sono.

Riccardo Pedrizzi