Multinazionali ed economia predona

Nel mese di agosto anche i lavoratori del magazzino Logista dell'interporto di Bologna hanno saputo via Whatsapp che nemmeno 36 ore dopo non avrebbero più avuto un posto di lavoro. “Buonasera, a seguito della riduzione delle attività, lunedì 2 agosto 2021 lei sarà dispensata dalla sua attività lavorativa. Cordiali saluti”, questo il messaggio di Logistic Time s.r.l. arrivato sui cellulari di 65 lavoratori. “Non può essere consentita una procedura cosi” ha sottolineato l'assessore regionale allo sviluppo economico, Vincenzo Colla.

Questa vicenda ricorda quella della toscana Gkn, che aveva comunicato sempre via mail il licenziamento a 422 operai. Logista è un gruppo controllato da una multinazionale spagnola, prepara gli scatoloni con tutti i prodotti del tabacco, dalle sigarette allo sfuso, a seconda degli ordini che i tabaccai fanno online direttamente a Logista. Con questi il numero dei licenziati da multinazionali salgono a 1229.

Tutti gettati con le loro famiglie sulla strada solo dalle cinque multinazionali che sono in questo periodo agli onori delle cronache per occupazioni da parte delle rispettive maestranze di autostrade e ferrovie, per presidi, per picchetti dinanzi ai rispettivi stabilimenti, per manifestazioni di proteste anche eclatanti.

La penultima azienda che chiude è la Timken di Villa Carcina in provincia di Brescia che, senza nemmeno far ricorso agli ammortizzatori sociali, ha annunciato ai 110 addetti la chiusura dello stabilimento. Da qualche anno erano in pericolo anche i 400 lavoratori della Whirpool di Napoli, che il primo luglio scorso sono stati licenziati, nonostante il pentastellato Luigi Di Maio nell'ottobre del 2018 e poi il ministro Stefano Petrullo dello stesso partito nell'ottobre del 2019 avessero garantito di aver trovato delle soddisfacenti soluzioni alla vertenza. E' poi ci sono i 152 dipendenti della Gianetti Ruote di Ceriano Laghetto (Monza). Infine i 422 addetti diretti della GKN, oltre agli 80 indiretti delle ditte appaltanti.

Si tratta di tutte aziende del settore dell'automotive che chiudono e che fanno capo a gruppi esteri che hanno deciso di abbandonare l'Italia e delocalizzare prevalentemente in paesi in via di sviluppo per cercare nuovi mercati dove la manodopera costa meno, dove vi sono meno tutele sindacali, dove c'è la possibilità di ottenere finanziamenti e sussidi a condizioni più vantaggiose e di vedersi praticare agevolazioni fiscali molto appetibili.

Insomma lasciano il nostro Paese solo per guadagnare di più.

Altri motivi non se ne ravvisano, ove si consideri che sono tutte aziende, quelle che dichiarano di essere in crisi qui da noi, che fanno utili, distribuiscono succosi dividendi ai soci, operano e dispongono di un mercato che tira, hanno produzioni di alta qualità molto richieste.

Si prenda ad esempio la Whirpool, che fa capo all'omonima corporation americana produttrice di elettrodomestici. Nel 2020 l'azienda Usa ha fatturato a livello globale 19,5 miliardi di dollari con un margine operativo salito in un anno dal 6,3% al 9,1%. Con un ritorno sugli investimenti record dell'11%, un utile netto da 1 miliardo, mentre nel 2018 subì 183 milioni di perdite. Il gruppo Usa è in piena salute con una produzione di cash flow di ben 1,24 miliardi nel 2020. L'azienda tra l'altro prevede per il 2021 un margine operativo sopra il 10%. La multinazionale Usa ha distribuito nel 2020 dividendi crescenti ai soci per l'ottavo anno consecutivo e 2 miliardi sono stati utilizzati per buy back, cioè si è comprato le proprie azioni, anziché fare investimenti produttivi.

O anche la Timken, anch'essa multinazionale americana, che produce cuscinetti ingegnerizzati e prodotti per la trasmissione di potenza, e grazie a più di un secolo di conoscenza e innovazione, è tra i leader di mercato. Collabora con la Nasa per esplorare Marte, con società di energia rinnovabile per alimentare grandi turbine eoliche, supporta il settore dei trasporti. Nel sito di Villa Carcina, aperto nel 1978 e acquisito da Timken nel 1996, vengono prodotti cuscinetti per il mercato fuoristrada e ferroviario. Nel 2020 la Timken ha registrato vendite per 3,5 miliardi di dollari. La società è operativa in 42 paese ed occupa 17 mila collaboratori in tutto il mondo.

Dal canto suo la Gianetti Ruote, storica fabbrica leader nella produzione di ruote per veicoli, camion, autobus e rimorchi con clienti importanti come Iveco, Volvo e Daimer, acquistata dal fondo americano Quantum Capital Partner, ha chiuso lo stabilimento e lo ha comunicato ai suoi dipendenti con un breve messaggio alla fine del turno pomeridiano. Eppure a Ceriano ci sono professionalità altamente specializzate ed hanno commesse che garantiscono l'80% del giro d'affari; anche in questi giorni consegna i suoi prodotti alla Harley Davidson. Il lavoro dunque non manca e si produce per trattori e camion di marchi come Iveco, Scania, Man e Volvo.

Infine la GKN, multinazionale britannica che fa capo al fondo Melrose, che acquisì lo stabilmento fiorentino con una scalata ostile, come è solito fare spesso, ha licenziato i suoi 422 dipendenti con una semplice comunicazione mail che annunciava la chiusura della fabbrica.

Eppure questo gruppo che opera nel settore automobilistico ed aerospaziale in 30 Stati di tutti i continenti ha registrato, come conglomerato di aziende (Melrose Industries), ricavi per 9,4 miliardi di sterline e 340 milioni di utili e la sua controllata GKN Automotive ha fatturato 3,8 miliardi ed utili per 82 milioni di sterline.

Ecco queste le contraddizioni che subito si possono rilevare anche nelle giustificazioni che le governance di questi gruppi stanno fornendo sia ai sindacati che al governo italiano, che sta predisponendo un decreto, per la verità quando i buoi sono già scappati dalle stalle, perché l'elenco delle imprese multinazionali che stanno delocalizzando continua ad aumentare di giorno in giorno.

Il provvedimento (“Decreto legge recante misure urgenti in materia di tutela dell'insediamento dell'attività produttiva e di salvaguardia del perimetro occupazionale”) dovrebbe scoraggiare la fuga delle multinazionali e mettere un argine al fenomeno delle “multinazionali in fuga” e alle chiusure aziendali non motivate da reali situazioni di crisi. La nuova normativa si applicherà alle aziende con almeno 150 addetti, il cui “impatto occupazionale sul territorio è considerato rilevante”. Il decreto introduce un percorso obbligatorio, la cui definizione è in corso d'opera per la massa di critiche che sono subito arrivate da più parti, politiche, sindacali ed imprenditoriali.

In verità l'equilibrio che necessariamente andrà trovato tra capacità di attrarre investimenti esteri e sanzioni da comminare a chi non rispetta le regole sarà veramente difficile da raggiungere, perché nello stesso governo, da una parte c'è il Ministro del lavoro, Andrea Orlando (PD), che vuole nuovi vincoli alle delocalizzazioni delle multinazionali (“Stiamo studiando gli strumenti, che vadano sopratutto a colpire chi ha usufruito di incentivi pubblici”); dall'altra, il Ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti (Lega) che avverte che “la normativa deve anche fornire una base che non pregiudichi l'attenzione di investimenti esteri”.

Con il presidente degli industriali Bonomi che spara a zero sull'intero provvedimento.

Staremo a vedere cosa partorirà il governo di Mario Draghi.

Ma queste vicende ci danno l'occasione per vedere quali sono in realtà le logiche che muovono questi colossi della finanza e dell'industria, cercando di indagare quali sono le politiche e le strategie globali di queste multinazionali presenti in tutto il mondo, per tentare anche di far luce sui meccanismi della cosiddetta “globalizzazione”.

La “globalizzazione” è sostanzialmente questo: distinguere il proprio profitto dal ruolo sociale della produzione, disgiungere il proprio tornaconto da leggi, convenzioni ed accordi nazionali, separare la effettiva proprietà, in mano alla finanza internazionale, dalla produzione.

In pratica, si chiude qui da noi solo perché non è abbastanza conveniente sulla scacchiera internazionale restarci ed anche perché occorre “consolidare” la rendita azionaria altrove.

Presso la casa madre di questo tipo di aziende, cioè, si punta per vincere. E per vincere a tutti i costi si getta via il sacrificabile. Ossia l’Italia, che si presenta spesso debole all’interno della stessa multinazionale negli equilibri di potere.

Oggi le potenzialità per ripartire ci sono a patto che si cambi “pelle” e si ripensi ad un nuovo modello di sviluppo attraverso il rilancio delle infrastrutture e dei lavori pubblici, un ricorso più agevole al credito bancario, una burocrazia più snella, una migliore formazione del personale, una giustizia più veloce ed efficiente.

Il caso delle singole multinazionali che delocalizzano dall’Italia pone, dunque, in maniera drammatica il problema di questo tipo di economia globalizzata, nell’ambito della quale i capitali si spostano, secondo convenienza, dove produrre costa meno. (Maggiori notizie e dati possono essere tratti dal Cap. XXVII “Globalizzazione ed un nuovo modello di sviluppo” del libro “Il Salvadanaio. Manuale di sopravvivenza economica” di Riccardo Pedrizzi. Editrice Guida - Napoli).

E davanti ad uno strapotere tanto forte da schiacciare popoli e nazioni, si mettono in tragica evidenza i ritardi culturali dell’Europa e dell’Italia, nonché i limiti delle vecchie ideologie.

Davanti alle legittime proteste dei lavoratori, c’è ancora chi fa appello alla preistorica logica del “lasciar fare”, che appare nel 21° secolo del tutto inadeguata, dal momento che il nuovo capitalismo, (definito da Luttwak “turbo-capitalismo”) è in grado di abbattere addirittura strutture sociali e Stati nazionali.

Il neocapitalismo arriva in un’area in via di sviluppo, le conferisce una momentanea ricchezza, ne indebolisce ulteriormente le strutture statuali già deboli e ne sfrutta il capitale umano. Quando l’area in questione, grazie anche alla accresciuta capacità economica, eleva anche il proprio status culturale e le proprie aspettative sociali, finisce per “alzare il prezzo”, detta condizioni, difende diritti, allora la multinazionale riparte, lasciando solo recessione e crisi. Va in un’altra area, ancora più povera ed abbastanza da accogliere i rappresentanti dell’azienda come “salvatori”, concedendo loro privilegi, contributi, sgravi fiscali. Una politica, questa, che oltre che essere anti-etica, anti-morale, anti-umana, si muove anche contro il vero sviluppo. Le aree abbandonate e desertificate dalle multinazionali si moltiplicano nel mondo (Usa compresi); le fasce di poveri in Occidente si accrescono e con esse i potenziali squilibri sociali.

Ristrettissimi centri di potere finanziario calpestano così l’interesse e la dignità dei popoli: ricchi e poveri, imprenditori e operai, intellettuali e disoccupati. I proprietari delle multinazionali ad esempio spesso sono fondi che raccolgono il risparmio in tutto il mondo, non sono produttori di merci e servizi, ma solo detentori del potere finanziario. Non sanno nemmeno come è fatto il loro prodotto. E nemmeno gli interessa saperlo.

L’area culturale ed ideologica socialdemocratica mondiale tentò di indicare la propria via per affrontare la globalizzazione, circa venti anni fa e si domandò come poter conciliare la libertà dell’economia aperta mondiale con i diritti sociali. A quella domanda nessuno ha dato risposta, finora.

Le letture ideologiche liberali, socialdemocratiche o, per quel che resta, marxiste non sanno dare risposte credibili.

La Dottrina Sociale della Chiesa, invece, offre soluzioni adeguate e sempre valide. E più volte il Magistero ha indicato la via da seguire nel campo economico-sociale.

Per sfidare l’economia globale sul suo terreno, va reso competitivo il nostro territorio, soprattutto riportando la nostra cultura cattolica e solidarista, nazionale e comunitaria al centro del dibattito culturale e politico europeo.

 

Riccardo Pedrizzi

www.riccardopedrizzi.it