Parole, parole, parole...

Circa un anno fa Renzi esordì come capo del Governo, facendo la promessa di voler mettere in sicurezza tutte le scuole disastrate del nostro Paese. Poi dal 15 settembre al 15 novembre dello scorso anno aprì una consultazione per stabilire come riformare la scuola italiana. A gennaio di quest'anno annunciò trionfalmente un decreto legge su , “La buona scuola”, che avrebbe celebrato adeguatamente un anno esatto del suo Governo.
Ora pare che sia saltato tutto, in quanto il premier, lasciando esterrefatta la Ministro della Pubblica Istruzione, Stefania Giannini, si è convinto che: “ci sono troppe materie dentro questo decreto” e che “quelle urgenti si mescolano con le meno urgenti. Meglio che si esprima il Parlamento – ha detto il Capo del Governo – dobbiamo mettere le Camere nelle condizioni di lavorare al più presto”.
Fatto sta, che il testo, né quello del Decreto Legge e nemmeno quello del Disegno di Legge, è stato per una decina di giorni un documento “desaparecido” tra Consiglio dei Ministri (il varo è del 12 marzo u. s.), Ragioneria dello Stato e Quirinale, tanto che le Commissioni Parlamentari competenti al 23 marzo stavano ancora ad aspettare...
Come dovranno ancora aspettare per lungo tempo di veder riconosciuto il proprio diritto alla libertà di educazione le famiglie che mandano i propri figli alle scuole paritarie.
Eppure la ministra del MIUR, che evidentemente conta veramente come l'asso di picche, continua a dichiarare che “la detrazione [ fiscale ] ci sarà” perché abbiamo fatto “un cambio culturale molto importante”.
Staremo a vedere perché, per ora, contrariamente allo spot pubblicitario del Presidente del Consiglio che tra l'altro prometteva sgravi per tutte le paritarie fino a euro 4.000, si sa che questa detrazione riguarderà solo le famiglie i cui figli frequentano una scuola paritaria dell'infanzia o del primo ciclo, restando escluse infatti dagli sgravi fiscali le scuole superiori. «Se venisse confermata la cifra di 400 euro annui per alunno come tetto massimo – ha dichiarato il presidente dell'Associazione dei Genitori delle Scuole Cattoliche, Roberto Gontero - dovremmo dire che la montagna non ha partorito neppure il classico topolino, ma addirittura una formica»... «Parlare di un tetto di 400 euro a un genitore che affronta una spesa decisamente superiore ha il sapore della beffa - ha proseguito Gontero - . Ma anche per le rette più contenute rimane un limite basso». «Incredibile – commenta il presidente dell’Agesc – che non si riconosca alcun aiuto alle famiglie che sono chiamate a sostenere la spesa più gravosa. Una discriminazione per queste famiglie e per queste scuole».
Eppure su questo tema che interessa quasi un milione di studenti (il 12% mentre negli anni 50 erano il 27%) contro i nove milioni delle scuole statali; che riguarda diverse migliaia di istituti (solo quelli associati alla Fidae, la Federazione delle scuole cattoliche, sono 13 mila) con 100 mila dipendenti tra insegnati e personale di servizio e che consentono allo Stato di risparmiare almeno 6,3 miliardi di euro all'anno, si erano pronunciati ben 44 parlamentari della maggioranza, tra i quali alcuni del Nuovo Centrodestra e gran parte di area PD, i quali in previsione dell'uscita del decreto sulla “Buona Scuola”, avevano firmato una lettera aperta al Presidente del Consiglio Renzi per chiedere che si superi “lo storico gap della scuola in tema di pluralismo e libertà di educazione” e che, dopo quindici anni dall'approvazione della Legge “Berlinguer”, finalmente si prendano provvedimenti per “favorire la parità scolastica con un sistema fondato sulla detrazione fiscale, accompagnato dal buono scuola per gli incapienti, sulla base del costo standard”, per realizzare “un primo significativo passo verso una soluzione di tipo europeo”.
Ma, evidentemente, non è bastato questo “pressing”, perché Matteo Renzi “azzardasse” un provvedimento di urgenza e perché affrontasse seriamente l'annoso problema della libertà di educazione nel nostro Paese.
E così praticamente tutto è rimasto sostanzialmente fermo alla legge n° 62 del 2000 voluta quindici anni fa dall'allora Ministro dell'Istruzione, il pidiessino Luigi Berlinguer che, benché priva di copertura finanziaria, equiparò scuola statale e “scuola paritaria” in un unico sistema formativo pubblico, superando almeno sul piano dei principi la concezione statalistica postunitaria. Mentre tutti gli stati dell'Europa, Francia compresa, da decenni ormai hanno posto sullo stesso piano giuridico ed economico sia la scuola dipendente direttamente dallo stato sia la scuola libera o autonoma che dir si voglia.
Da ciò deriva che non si tratta - come vorrebbe ancora far apparire qualcuno in mala fede – di una questione che riguarda esclusivamente i cattolici (anche se in effetti la tradizione pedagogica degli istituti religiosi è quella che più resiste nel nostro Paese e se le scuole gestite da enti ecclesiastici e religiosi rappresentano oltre il 70% di tutto il settore della scuola non statale) ma che interessa tutti i cittadini indistintamente, perché su questo tema si giocano le sorti dell'ultimo dei diritti naturali che la civiltà moderna ci ha lasciato: quello dell'educazione dei figli.
Del resto la nostra Carta Costituzionale ha già individuato e delimitato il campo entro il quale può essere concessa la parità alle scuole non statali e stabilito per quali alunni debba essere assicurato un trattamento “equipollente” a quello degli alunni delle scuole statali.
L'art. 33, infatti, chiaramente identifica tra tutte le scuole private di cui al III comma, quelle “che chiedono la parità”, prescrivendo subito dopo che la legge “deve assicurare ad esse piena libertà ed ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali”.
In effetti tutta la concezione che permea la nostra carta fondamentale è quella di una scuola come servizio pubblico, svolto nell'interesse della comunità nazionale, indipendentemente da chi ne usufruisce e da chi lo svolga (Stato o enti privati purché nell'ambito di quelle norme generali dettate dal II comma dell'art. 33).

Proprio per questo, voler continuare ad insistere su quel “senza oneri per lo Stato” di cui al III comma dell'art. 33 da parte di coloro che restano arroccati su posizioni monopolistiche significa voler disattendere e contraddire lo spirito della nostra Costituzione.
Eppure bisognerà aspettare la legge sulla parità (L. 62/00) che, con il decentramento e con l'autonomia, sancisce il principio di “sussidiarietà orizzontale”, con l'ingresso nel servizio pubblico di scuole istituite sia da enti locali che da soggetti privati.
Gli obiettivi della legislazione sull'autonomia però sono rimasti in gran parte inattuati.
L'invito all'integrazione e alla collaborazione contenuto nella Legge Berlinguer è stato colto sopratutto sul piano di principio; nei fatti, però, la distinzione è rimasta netta. Per questo motivo la presenza delle scuole non statali è andata progressivamente diminuendo nel corso degli anni, con un notevole ridimensionamento nella secondaria di primo e secondo grado, che oggi accoglie solo il 4 – 6% del totale degli iscritti: cioè una quota irrilevante del sistema, che ormai è quasi del tutto statalizzato. Infatti le scuole paritarie nel 2013 accoglievano il 38% di alunni nella scuola dell'infanzia il 7% nella scuola primaria, il 4% nella secondaria di primo grado, il 6% nella scuola secondaria di secondo grado e, per quanto riguarda il sostegno alle famiglie, lo Stato sostiene per le scuole paritarie un costo di 310 euro, 764, 93 e 47 rispettivamente per le scuole dell'infanzia, delle primarie, delle secondarie di primo grado e delle secondario di secondo grado a fronte di un costo per le scuole statali di 6.300 euro, 6.500, 7.100 e 7.000.
Come si vede il quadro complessivo rimane fortemente sbilanciato verso la scuola dell'infanzia, che da sola rappresenta quasi due terzi del totale. Proprio per questo, se Renzi avesse voluto veramente affrontare e risolvere il problema, avrebbe dovuto agevolare in particolare proprio le famiglie che mandano i loro figli nelle scuole secondarie superiori. Mentre proprio queste sono state ancora una volta discriminate e penalizzate.
Eppure in tutta Europa le situazioni sono totalmente ribaltate:
Il sistema inglese è fra quelli in cui le scuole dispongono di maggiore autonomia operativa. L'idea di base non è cambiata: la scuola è in primo luogo di chi la frequenta (studenti e famiglie). Ai poteri centrali spetta di fornirle gli strumenti per funzionare, di fissare obiettivi alti (ma generali), di mettere a punto strumenti di controlli e verifica. Ma le scuole hanno larghissimi margini di scelta negli orari, nelle materie, nei metodi di valutazione; e, sopratutto, nella selezione ed assunzione dei propri docenti.
In Francia, dove la scuola non statale copre il 18% di tutta la popolazione scolastica, dopo quasi un secolo di “guerre scolaire”, le leggi Debrè del 31/1/1959 e dell'1/6/1971 e quella Guemeur del 25/11/1975 hanno creato un sistema misto che prevede quattro categorie di scuole: quelle integrate, in pratica statizzate, quelle che godono di libertà assoluta e non ricevono alcun sussidio; quelle a contratto semplice, nelle quali gli insegnanti sono forniti del cosiddetto “gradimento” dello stato, per cui da esso ricevono la retribuzione ed a suo carico sono gli oneri sociali; quelle, infine, “associate” che usufruiscono di finanziamenti per il loro funzionamento.
In Belgio la scuola non statale rappresenta ben il 60% dell'intero sistema educativo e fin dal 1959 riceve dallo stato i fondi necessari per le rette, per il personale, per la gestione e la costruzione degli stessi edifici scolastici. Quindi qui lo stato sopporta sia le spese di gestione che d'investimento.
Nella Germania Federale, così come avviene in Gran Bretagna, la maggior parte delle scuole fanno capo alle amministrazioni dei singoli Laenders, che assicurano nell'ambito della scuola pubblica che il diritto naturale all'educazione dei figli possa essere concretamente ed agevolmente esercitato. Le rimanenti scuole private usufruiscono di contributi statali anche se parziali, per la manutenzione degli immobili, per il pagamento del personale all'85% e per le pensioni al 90%.
In Olanda, dove la scuola statale assicura il servizio a solo il 30% degli studenti, frequentando tutti gli altri le scuole non statali, lo stato stanzia le stesse provvidenze per i due tipi di scuola. Sono stati adottati così principi di completa uguaglianza, ritenendosi che tutte le scuole svolgano un servizio sociale, purché, naturalmente, non abbiano scopi di lucro.
Nella Spagna la scuola non statale raccoglie il 38% dell'intera popolazione studentesca ed è costituita per la maggior parte da scuole cattoliche; lo stato, pur esercitando una certa vigilanza ed avendo inserito propri rappresentanti nei consigli di amministrazione delle singole scuole, assicura finanziamenti pubblici di una certa consistenza.
E l'elenco potrebbe continuare con l'Irlanda, la Svezia e la Danimarca, paesi nei quali non vige alcuna penalizzazione per le scuole private che, viceversa, sono messe sullo stesso piano di quelle statali.
In Italia, invece, siamo ancora fermi per quanto riguarda la parità di trattamento economico alle dichiarazioni di principio alle proposte di legge (nel dopoguerra ne sono state presentate decine - anche da parte di chi scrive - e nessuna è stata mai nemmeno discussa in assemblea) ed ora alle promesse non mantenute di Matteo Renzi.
Resta perciò l'obiettivo comune di restituire ai cittadini quella ampia autonomia decisionale che è stata loro progressivamente confiscata dall'invadenza di uno stato assistenziale e clientelare: uno stato tanto più invadente quanto più burocratico, tanto più costoso quanto più inefficiente. Perché come ha scritto sul “Corriere della Sera” qualche giorno fa Giorgio Vittadini, Presidente della Fondazione per la Sussidiarietà: “È davvero arrivato il momento di dare una svolta. Non con grandi rivoluzioni...... per chi frequenta le paritarie, estendendo metodi di finanziamento già condivisi tra le diverse forze politiche, quali i voucher, i buoni scuola o altri contributi alle famiglie (attivi in diverse regioni tra cui Toscana, Emilia-Romagna, Lombardia) e prevedendo la detraibilità fiscale delle rette pagate dalle famiglie”.

Riccardo Pedrizzi